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Tasse per tutti, la proposta Yellen e le Big Tech

Il Tesoro Usa con Janet Yellen ha lanciato la proposta di una tassazione minima mondiale. Le Big Tech e le altre corporation sarebbero così chiamate a dare un maggiore contributo ai piani anticrisi. E l’Europa? Finora sulla politica fiscale ha parlato molto e fatto niente.

Nel 2015 Google Bermuda ha fatto profitti per 15,5 miliardi di dollari, nel 2017 i miliardi erano diventati 23. Nell’arcipelago, che è un territorio britannico d’Oltremare, la tassa sui profitti delle corporation è allo 0%. Bermuda ha circa 64 mila abitanti che, dunque, guadagnerebbero solo da Alphabet Inc. 350mila dollari a testa. Secondo l’Institute on Taxation and Economic Policy, nel 2020 55 corporation non hanno pagato un dollaro di tasse sui loro profitti negli Stati Uniti.

A livello globale, le imprese multinazionali hanno spostato più di 700 miliardi di dollari di profitti nei paradisi fiscali nel 2017 e questo spostamento ha ridotto le entrate fiscali globali delle imprese di quasi il 10%.

Una ricerca condotta da Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman, ricercatori delle Università della California (Berkeley) e Copenhagen, da cui traiamo questi dati (ben visualizzati qui) , segnala come l’Europa sia la regione del pianeta a perdere di più, seguita dagli Stati Uniti. Con la differenza clamorosa che mentre le corporation americane pongono le loro sedi legali lontano dagli States o nelle isolette dei Caraibi, l’Europa i paradisi fiscali, ce li ha in casa. Nel 2017 l’Olanda ha incassato tasse per 10,5 miliardi grazie ai profitti fatti altrove e trasferiti qui, il Belgio 20, mentre il Lussemburgo ha tasse così basse da aver incassato solo 1,9 miliardi. Naturalmente si parla solo di imprese e di giochi legali per spostare i profitti lontano da dove si generano, non delle ricchezze personali nascoste nei paradisi fiscali (o delle sussidiarie improbabili). In quei casi la ricchezza trasferita altrove è in percentuale molto più alta, l’1% sa come evitare di pagare sulle proprie ricchezze personali.

I ricercatori americani e danesi stimano che l’Italia abbia perso più di sei miliardi di entrate fiscali, la Francia 13, la Germania 20. Una fonte italiana? Ecco una ricerca dell’Area Studi di Mediobanca: “Nel 2017 circa due terzi dell’utile ante imposte delle WebSoft è stato tassato in paesi a fiscalità agevolata (Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi ecc.), con un risparmio di imposte pari a 12,1 miliardi, grazie a un tax rate effettivo del 31%, contro il 41% previsto. Nell’arco del quinquennio 2013-2017 il risparmio cumulato supera i 48 miliardi”. Il tema dei grandi gruppi che grazie a trucchi contabili evitano di pagare le tasse dove dovrebbero è importante non solo per ragioni di giustizia fiscale: evitando di pagare le tasse e muovendo le proprie sedi legali in base al livello di tassazione, le corporation hanno anche determinato una corsa verso il basso della tassazione in tutto il mondo – si vedano qui i dati sul declino delle tasse sulle corporation.

Questo tipo di dati non sono disponibili da molti anni, ma sono anni che sono noti i meccanismi che portano a questo mancato pagamento delle tasse. Per queste ragioni e per ragioni di cassa, da anni l’Europa lavora a immaginare un prelievo fiscale sulle Big Tech (Amazon, Google, Facebook , Apple e Microsoft) e l’Ocse lavora a ipotesi di tassazione su queste così come a una tassa globale. Buon ultimo è arrivato il Fondo Monetario Internazionale che per bocca del capo delle questioni fiscali, Vitor Pascal, parla ora della necessità di introdurre una tassa una tantum sui ricchi e le imprese che guadagnano sul modello di quella imposta ai tedeschi dell’Ovest per pagare la riunificazione.

Non se ne parla molto, ma come probabilmente i frequentatori di Sbilanciamoci.info sapranno, uno dei nodi per un ritorno alla normalità nelle relazioni transatlantiche era proprio l’idea europea di tassare i giganti del Web, in stragrande maggioranza americani. Se permangono divergenze sul NordStream 2, l’oleodotto che dalla Russia arriva in Europa, le tasse non sembrano più essere un problema. Al Tesoro Usa è arrivata Janet Yellen, che a differenza del suo predecessore Steve Mnuchin non ha mai lavorato per Wall Street, e la musica è cambiata. Anche rispetto ai tempi di Obama, che aveva a disposizione soprattutto economisti intrisi dell’ideologia anni ’90, passati per le banche ed era spaventato dall’idea di apparire radicale – e che pure nominò Yellen alla Federal Reserve. Biden non ha questo problema e sa, per l’esperienza del 2008 e del pacchetto di stimolo di allora che tutti sanno essere stato troppo piccolo, che occorre cambiare rotta. Biden sa anche che gli Stati Uniti stanno accumulando un ritardo in diversi grandi capitoli – la lotta al cambiamento climatico, la ricerca pubblica, per fare gli esempi più evidenti. E così Yellen nel giro di qualche giorno ha cambiato radicalmente la posizione Usa. Prima la Segretaria al Tesoro ha superato un veto di Trump che pretendeva che i colossi Big Tech avrebbero dovuto poter aderire alla tassazione su base volontaria. Ora sono gli Stati Uniti che sperano di raggiungere un accordo sulla Web Tax entro l’estate.

Ma il passo in avanti più importante è quello relativo all’ipotesi di una tassa minima globale. La sua non è bontà ma una visione razionale: a Washington si discute di grandi investimenti e per farli servono soldi. Per finanziare le iniziative proposte dall’amministrazione Biden occorrerà alzare le tasse americane, ai ricchi e alle imprese e prepararsi a un fuoco di fila repubblicano e dei rappresentanti dell’industria (la Chamber of Commerce è molto filo repubblicana). Farlo in un clima in cui il discorso globale sulla tassazione è cambiato aiuterebbe. Parlando al Chicago Council on Global Affairs, Yellen ha spiegato bene il suo punto di vista: “La competitività non riguarda solo il modo in cui le aziende con sede negli Stati Uniti si comportano nei confronti di altre aziende nelle offerte di fusioni e acquisizioni. Si tratta di assicurarsi che i governi abbiano sistemi fiscali stabili che raccolgano entrate sufficienti per investire in beni pubblici essenziali e rispondere alle crisi, e che tutti i cittadini condividano equamente il peso del finanziamento dello Stato”. L’ipotesi di Yellen è di portare le tasse per le corporation al 28% e di una tassa minima sui guadagni fatti all’estero del 21% (oggi è al 10,5%).  L’ex presidente della Fed ha sottolineato che le entrate serviranno a finanziare “infrastrutture tradizionali, come quelle più moderne necessarie per gestire un’economia digitale, come le reti a banda larga ad alta velocità”. 

E così Yellen nel giro di qualche giorno ha cambiato radicalmente la posizione Usa. Prima la Segretaria al Tesoro ha superato un veto di Trump che pretendeva che i colossi Big Tech avrebbero dovuto poter aderire alla tassazione su base volontaria. Ora sono gli Stati Uniti che sperano di raggiungere un accordo su una tassa che non è solo per i giganti del Web ma per le multinazionali più grandi e più redditizie del mondo che sarebbero soggette alle nuove regole, indipendentemente dal settore, in base al loro livello di entrate e margini di profitto (un centinaio secondo il Financial Times che ha visto la proposta americana all’Ocse).

Semplice no? Le crisi che si sono succedute a partire dal 2008, l’emergenza climatica e quella della pandemia, le diseguaglianze crescenti e quello che hanno causato in termini di crescita del fascino per risposte autoritarie, dovrebbero averci insegnato che occorre cambiare le politiche che in 40 anni hanno contribuito a plasmare il mondo in cui viviamo. Per affrontare le crisi servono risorse e per raccoglierle serve che le multinazionali la smettano di fare profitti pagando poco o nulla al fisco (Gabriel Zucman in questo tweet ci ricorda che le Big Four della tecnologia pagano tra il 16,2% e l’11,8%).  A Washington sembrano averlo capito e questo aiuterà anche un po’ a far prendere coraggio all’Europa, che pure di questi temi discute da anni, ma come sempre le capita di fare, senza la capacità di far diventare quelle discussioni brussellesi temi di dibattito politico nazionale. In Europa, con le differenze immani che ci sono (9% in Ungheria, 32% in Francia) sarà complicato trovare una quadra, una spinta multilaterale aiuterebbe. Non sarebbe la rivoluzione, ma un buon passo in avanti per poter pensare a politiche pubbliche capaci di farci immaginare un futuro un po’ meno diseguale.