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Progressi nella concezione di progresso?

Quello che ci occorre non è più progresso, ma una maggiore capacità di affrontare le conseguenze del presunto progresso già raggiunto. Da “Il benessere oltre il Pil” numero della Rivista delle politiche sociali di Ediesse

L’articolo del politologo tedesco Offe apre il numero 1/2011 della Rivista delle politiche sociali, dedicato a “Il benessere oltre il Pil”. Pubblichiamo qui un paragrafo dell’articolo di Offe (n. 4: “Un’alternativa progressista”).

Le nostre società sono palesemente quasi del tutto incapaci di impedire catastrofi morali o fisiche e crisi autodistruttive da loro stesse provocate (o di occuparsene veramente). Alle élite politiche e filosofiche delle società schiavistiche fu dato, in qualche modo, di vivere in armonia con le loro premesse normative. Un’armonia di questo tipo tra esigenza normativa e realizzazione pratica a noi è negata. Tuttavia, se non vogliamo rassegnarci all’indifferenza, c’è (questa la mia tesi) un’alternativa progressista – in effetti l’unica concezione adeguata di progresso nelle condizioni attuali: rafforzare le nostre capacità collettive di prevenire le catastrofi e i regressi della civiltà. Quel che ci occorre non è «più» progresso, ma una aumentata capacità di affrontare le conseguenze del (presunto) progresso già raggiunto. Non abbiamo bisogno di nuovi valori, visioni o principi, quali sono stati declinati fin troppo dai teorici rivoluzionari di epoche passate. Tutto ciò di cui noi, in quanto fautori del progresso, abbiamo bisogno, è il coraggio di prendere noi stessi sul serio e creare condizioni che ci consentano di farlo.

Oggi non c’è più un ampio accordo istituzionale per il progresso sociale e politico, non c’è un piano di grandi mutamenti (quale è stato, per esempio, il «socialismo», che tuttavia oggi appare piuttosto un vuoto luogo comune, se guardiamo come lo hanno intesto diversi sedicenti socialisti). Questi progetti generici per la costruzione di una società giusta non solo non ci sono più, ma non dobbiamo neppure deplorarne la mancanza, come ha spiegato Amartya Sen (2009) con la sua critica di ciò che chiama l’«istituzionalismo trascendentale». «Progressista» è invece (lo ammetto: in una accezione molto difensiva) tutto ciò che è necessario a immunizzare in modo più o meno sommario le società moderne contro i regressi e le infrazioni delle loro rivendicazioni normative – rischi a cui sono esposti. Così, come risultato di un progresso di questo tipo, esse sarebbero meno inermi di fronte al proprio potenziale regressivo. Certo, non mancano gravi indizi del fatto che simili disposizioni difensive non prosperano troppo bene, nelle condizioni raccomandate dagli economisti neoliberali. La ragione è semplice: i mercati possono fare cose meravigliose, ma tra queste non rientra certamente incoraggiare le relazioni sociali solidaristiche e tener conto di conseguenze lontane nel tempo – per così dire la solidarietà lungimirante con i noi stessi del futuro (Lukes, 2005). Ma sono proprio queste due disposizioni del giudicare e dell’agire i presupposti necessari, se vogliamo dare un senso pratico al concetto «difensivo» di progresso qui esplorato.

Per rinforzare l’esercizio di queste due virtù («solidarietà» nelle dimensioni sociale e temporale), i fautori della concezione tradizionale del progresso dovranno familiarizzare con l’idea leggermente paradossale secondo cui l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è più progresso – misurato come crescita economica, produttività, piena occupazione, consumismo, massimizzazione delle opzioni sui mercati e nella conduzione di vita individuale (Fitzpatrick, 2004; Goodin, 2001). Certo, lo sviluppo delle forze produttive e la crescita economica sono sempre stati il meccanismo sociale integrante e pacificatore delle società capitalistiche: senza (l’aspettativa di) crescita, gli investitori non investono e i lavoratori non si adattano al regime del lavoro aziendale, per il quale vengono ricompensati con (la prospettiva di) un reddito reale crescente. Per contro, i fautori di un concetto difensivo di progresso devono riflettere su possibili meccanismi adatti quantomeno a mitigare le conseguenze disastrose di quell’altro «progresso». Di fronte alle tendenze regressive presenti anche in società politicamente ed economicamente avanzate, e a causa del pericolo di una ricaduta in una parziale barbarie (Offe, 1996) e del rischio di mettere in pericolo se stessi, si impone una domanda: come possiamo ragionevolmente immunizzare i processi sociali ed economici contro il regresso, e con ciò stesso renderli duraturi (vale a dire durevolmente compatibili con se stessi)? Albert Hirschman (1993) parla della necessità di consolidare i progressi raggiunti in passato, di preservarne il senso e la robustezza. Si tratta indubbiamente di un atteggiamento difensivo, per non dire conservatore. Tuttavia, questo atteggiamento stimola riflessioni su istituzioni, norme e condizioni di vita che occorre proteggere (e perché) dal rischio di essere triturati negli ingranaggi dei ciechi processi di razionalizzazione.

(…)

* L’intero articolo, dal titolo “Progressi nella concezione di progresso”, è pubblicato sul numero 1/2011 della Rivista delle Politiche Sociali (Ediesse), intitolato “Il benessere oltre il Pil”. In allegato pdf, l’indice della Rivista.